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Giuseppe Rosato e l’oscurit del tempo

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Giuseppe Rosato, Lu scure che s'attonne.
Raffaelli editore, Rimini 2009.


Quinto titolo in versi nel frentano della natia Lanciano (e di una produzione già vastissima anche nella poesia in lingua oltre che nella prosa e nella saggistica) questo testo si pone nell'arco della scrittura di Rosato come il libro della conta dell'angoscia e della solitudine alla scomparsa della donna di una vita, della moglie, la poetessa Tonia Giansante. Nel momento in cui tutte le cose si fanno vicine e sembrano chiamarlo alla fine della salita, più alto si fa lo scetticismo per la vanità di una esistenza che si è rivelata un'illusione, una fatica da cui gli stessi sogni ne escono storditi, affannati. Il tempo che resta è un tempo di duplici spazi, quello della memoria e della casa, con i suoi fantasmi e i suoi abbagli, e quello dello scorrere di là dai vetri con i suoi fraintendimenti forse ancora più forti. La lotta nella contraddittorietà delle sospensioni è allora tra un desiderio di uscita nel patto con una morte sempre più presente e il desiderio di restare per quanto possibile ancora un poco nel gusto di un esserci del quale però si avverte con prepotenza tutta l'insensatezza. Il dialogo è con le cose, con le presenze e gli affacci di anni dai quali l'occhio, la mente cerca di carpire un riparo, come a ritrovare una grazia, una luce da stanze non più condivise. Perché c'è stato un tempo in cui la bellezza scorreva tra le pareti nel pieno delle rincorse e delle azioni e che ora, svanito, non può che farsi rammarico nella staticità delle ombre e dei portaritratti, delle paure, ancora, nella consapevolezza del buio e delle irrevocabili lontananze. Al risveglio entro un volto in cui stenta a riconoscersi Rosato oppone allora la ferma dignità di una interrogante persistere, di una interrogante dolenza nella nebbia di un avanzare indistinto. Nella consapevolezza come detto della fine del sogno e delle illusioni la stessa figura cara di lei infatti gli appare- e ci appare- ora nella trasparenza di una tenerezza che nel sonno, nel mistero, si fa carezza ora in quella separazione irricucibile ai cui richiami lui, Orfeo al contrario, non credendo, non cede, non gira la testa (anche le parole, i "come se" non aprendo che abissi). Resta quella di Rosato una poesia del dubbio e sull'incapacità umana comunque di andare aldilà delle proprie visibili logiche e dunque di una letizia, di un rasserenamento comunque negato perché intrappolato dentro nubi dietro le quali sovente non è contemplato l'azzurro, negato alla vista e spesso all'anima, come nella bella analogia in "Penzà' ca 'rrète a tutte sta scurizie". Poesia di slanci e di introversioni, che sembra bearsi della vita che dai balconi rimena in casa in tutta la sua antica e votiva pienezza, ecco però la figura del rifugio che subito risale, si affaccia tenendo a distanza il cielo di marzo certamente chiaro ma agli occhi lontano e senza calore. Più caldo il cielo d'inverno nel riconoscimento e nella accoglienza, nel suo dono continuo ed eterno della neve (nel fruscio "a trezzecà' lu vetre", scendendo a mulinelli con "case e cchiese/e file de la luce" a divenire una cosa mai vista), nella misericordia di un chiarore che risponde al bisogno, e alla memoria se poi il riferimento è soprattutto all'interno di un circuito di affetti e legami incancellabili (dei Natali e degli abbracci che stringevano al freddo). Così non ha senso credere di poter scappare, sempre piuttosto il mare, la terra (e qui ci sovviene il Kavafis de "La città") non possono che riportare a casa, in quella casa dove è "tutta la vita tê, o chelu ccòne/de vite addò la morte t'ha landàte" ("tutta la tua vita, o quel poco/ di vita dove la morte ti ha lasciato"). Le riflessioni sul tempo che scorre, come è detto e come è naturale, si uniscono sempre più a quelle sul destino, su un'esistenza che si dilegua nella domanda se davvero è stata e dove va a perdersi. L'inevitabilità della morte come ultimo tempo, come ultima attesa è il crinale tra l'amara considerazione di dover uscire dal mondo stanco e senza alcuna conoscenza dopo essersi spesi tanto per sapere e per capire e la possibilità che di là le luci non si spengano ma passino semplicemente come sulla terra ad un nuovo giorno seppure, ribadiamo, la scrittura di Rosato continui a nutrirsi dei suoi scetticismi, dei suoi dubbi (alla morte in realtà chiedendo solo di dargli il tempo di abituarsi prima di prenderlo). Gli occhi fatti vecchi ma che non si rassegnano pur inseguendo ombre, il libro si chiude con l'intensità e la bellezza dell'ultima immagine: il suo affaccio dal vetro a vedere la neve che scende nel bianco che non gli fa sembrare "ca già/ha calate la notte" ("che già/ è scesa la notte"). Andando a concludere, allora, la dimensione filosofica di cui si è spesso parlato in relazione a questa poesia è confermata in una sapienza di scrittura che sa muovere attraverso le proprie malinconie, le proprie amare certezze riportate all'interno di un andamento che, nel tono secco e diretto del suo avanzare, dà alla struttura del dettato la forma di uno stoico resistere. Ed è questo, o anche questo, che ce lo rende caro.

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